crepuscolare intesa tra versi e immagini.

crepuscolare intesa tra versi e immagini.

domenica 28 agosto 2011

Inattesa metamorfosi


Tra il geranio e il rampicante,
oltre l’irrequieta coccinella
che punge di rosso screziato
il primo chiarore dell’alba,
ingabbiato nell’angusto poggiolo,
lo sguardo cattura immagini.

Ciondolando il passo stanco
giunge il vecchio pescatore,
si acconcia al nuovo giorno.
I suoi movimenti indaffarati
hanno il respiro del mare,
la calle ne rimanda la eco.
La rete reclama cure, mani
forti e decise come tenaglie
hanno la sapienza del sale.
Rapidi gesti di antica maestria
medicano le ferite del tempo.

Dodici matite monachelle,
come vergini anime colorate,
ora soccorrono le mie mani.
Inattesa torna arrogante
la persa consuetudine al segno.
L’irrequieta, rossa coccinella,
giovane goccia di sangue,
tradisce il rampicante, si posa.
Ora dipinge la mia mano.

Porta fortuna, dicono.

sabato 27 agosto 2011

Era solo un aperitivo, ma poi...


Brillava tra l’arancio e il verde oliva
il sorriso come aperitivo nel cristallo
e il lampo dei tuoi occhi era un sorso
di caldo sole mediterraneo nel brindisi.

Un tuffo nel verdemare dello sguardo
fu la risposta del mio cuore al tuo invito
Aracne completò la sua tela e fui preda,
la paura tuonò improvvisa nei miei battiti.

Il lampo era l’amore che vince il tempo
fuggii consumando giorni nella ragnatela
così mi persi tra l’arancio e il verde oliva
e inutili furono i convulsi tentativi di oblio.

Come yo-yo ritornai tra le tue mani.

Appesi al silenzio


Sul letto nostre impronte si dissolvevano alle mie spalle
e il vitreo diaframma che separava le pagine della storia
si imperlava di iridescenti bugie recitate a fior di labbra,
mentre la tua sagoma barava sul selciato pallide ombre.

Il dolore fu allora la mia veste e inarcata una parte di me,
ebbi un moto di sofferta ripulsa dell’inevitabile fine, invano.  
Sottilissimi fili come corde di arpa dolente mi trattenevano,
vibravano risplendenti proiettando lame di luce accecante.

L’agonia dell’amore in quell’alba ebbe la voce del silenzio.

Una buona ragione


Forse c’è una buona ragione per continuare a scrivere.
Quando le parole rincorrono le mani e si sentono sole
e la notte ha il sapore del caffè irrancidito nella tazzina,
stravolgi i tuoi pensieri e leghi il cuore a un solo battito.
Sarà quel ritmo ossessivo, monocorde che comanderà,
detterà il percorso dei tuoi pensieri fagocitando il senso.

[le dita come alunni in un’aula vuota spezzano gessetti
straziando brandelli di anima su una lavagna bugiarda]

Sì, forse c’è una buona ragione perché tutto ciò accada
anche stanotte inseguo immagini, laceri pezzi di anima
che bussano e premono alla porta, coartando le mani…
il bisogno di urlare, di liberare la mente è insopprimibile.
La voglia indecente del raccontarsi nonostante gli errori
altera la sequenza degli impulsi vitali e denudo parole.

[anime sensibili in farisaica processione ora giudicano
spettacolo inverecondo quel lacerar veli del tuo mondo]

E’ amore, è una buona ragione.

giovedì 25 agosto 2011

Verdi pensieri


Un guizzo increspa l’acqua improvviso
un desiderio argenteo riflette l’occaso
forse fuga vitale o anelito di libertà…?

Tra i riflessi bruni il defilè della medusa.
Ansima l’incedere il diafano pelagico,
ostenta l’arroganza dell’innata eleganza.

Hanno il colore e il sapore della menta
i pensieri che guizzano ratti nella laguna,
battiti come nuovi ritmi, chiedono ascolto.

[il cuore  getta la rete, la luna annuisce]

sabato 20 agosto 2011

Il buio scende silenzioso come una penna agitata


Il verde del camicie insulta dappresso
il bianco alienante della stanza
che mi assale e soffoca, nodo alla gola.

[stride il volersi sereno, nonostante]

Mentre il tunnel mi inghiotte come igloo
il cuore gela il pensiero incombente
e la paura attende un’altra dimensione.

Nel fragore dei battiti del cuore d’acciaio
i miei non hanno risonanza alcuna
ma raduno parole, pezzi d’anima sparsi.

[si vorrebbe calmo respiro, ora]

Chiudo gli occhi feriti dal bianco alienante
il verde non ha respiro nel nero che inghiotte.
Nel silenzio che stanotte mi cheta, lo scrivo.

…ma la penna è agitata, ancora…

Gioco di specchi


Si disse sì, uno è figlio della paura
allora l’amore aveva sorriso giovane
e nelle reni lo scatto del purosangue.

Forse si esagerò, si andò al galoppo
allora l’amore chiamava incoscienza
e lo specchio era l’alleluia del mattino

Difficile la conta all’appello degli anni
l’amore non chiedeva lauree di numeri
e l’ironia era lo specchio dello sguardo.

La semina sparsa intorno germogliò
giunchi forti al vento alienarono tratturi
e il sorriso fu specchio dei purosangue.

Il vento del tempo ha mutato ramazza
su strade ora diversamente acciottolate
il passo di reni stanche irride il galoppo.

…e lo specchio evita il mattino… 

Come un cuore in lattina


Ammaccato, tinto e ritinto
rossa ferita che si accartoccia
scolorando il minio in ruggine,
tra ingiurie del sale del tempo
e graffi di un’anima inquieta,
batti e ribatti tamburo di latta.

Oggi mio cuore ti porto al mare
mentre la risacca bagna i piedi
mano nella mano dolcemente
ci incammineremo fino a laggiù,
là dove il blu muore nel nulla
al ritmo metallico dei tuoi battiti.

Rabbrividiamo, il sole imbruna
l’orizzonte viepiù si avvicina, ma...
il mare accarezza i nostri passi
e riflessi dorati sciolgono la neve.
Il rosso tamburo di latta sorride,
stanotte lo riempirò di stelle per te.


Nero onirico mediorientale


[il bianco riflesso abbaglia
il nero profilo taglia lo scuro
la voce roca invita al passo
oltre il muro colore mare]

neri fondi di caffè disegnano
inedite macchie di Rorschac
i suoi occhi come brace spenta
ora lampeggiano il responso

danza vorace il nero scorpione
inarca la coda, misura la preda
come goccia acida la menzogna
incide di nuovo il viso di pietra

rotola la moneta, il marmo risuona
il ghigno la inghiotte, corvo rapace
bevo il caffè, di nero tinge il passo
oltre muro il bianco mi accoglie

ride la vecchia al tinnir del soldo
lontana una nenia sfinisce i sensi
danza lo scorpione da frenesia colto
muore il nero nel bianco tuo seno

…flashback in bianco e nero…

La chiave rossa


[Serata torrida, umidità da bagnomaria. Decido che fare “quatro ciàcoe” in quel di Venezia, nel salotto buono della venexiana più ospitale della laguna sarebbe stata un’idea da Oscar, la cui brillantezza mi avrebbe inorgoglito per parecchio tempo. Ipso facto, rompo “il porcellino del pensionato”, racimolo una manciata di euri e mi accingo ad accendere un mutuo per pagare il taxi driver lagunare che mi avrebbe traslocato sino alla magione ambita.]

Infilo un paio di braghe decenti, arraffo i conquibus e mi fiondo in darsena, a Chioggia, dove il fido capitano Marco mi attende sul suo bragozzo Ulisse I per traghettarmi sino alla calle gentilizia dove il Rosso Veneziano del palazzetto si specchia nel canale. Classica decorazione delle finestre, col bianco calce che ne disegna il profilo e quell’aura di dolce opulenza che trasuda da ogni particolare. Non dirò, nemmeno sotto tortura, dove si trova questa meraviglia architettonica, né tanto meno svelerò il percorso che il navigato capitano ha fatto per canali e rii sino ad arrivare a destinazione, dirò soltanto che il bragozzo attraccò dolcemente alla sponda del canale dove un portone verde bottiglia abbagliava il rosso riflesso dell’edificio con lo splendore e il luccichio dei suoi ottoni. Il rosso, già. Questo colore sarà il fil rouge di tutta la serata, inevitabilmente.

Mentre metto a repentaglio la mia integrità fisica con un balzo sul cemento, la coda dell’occhio viene attirata da una scena inusuale: un gabbiano dondolante sull’acqua osservava  come inebetito il suo candido piumaggio assumere toni di rosso acceso che col dondolio sfumavano dolcemente in rosa antico per poi morire tra i riflessi sanguigni del canale. Tre gradini e fui dinanzi al portone. Istintivamente misi una mano in tasca e trovai l’amichevole contatto con la chiave, la chiave di “casa”. Non stupitevi, la padrona di casa, vista la mia assidua frequentazione del suo salotto, mi fece dono della chiave, come segno di amicizia e di stima nei miei confronti. Oh, ma non è una chiave diciamo così, normale, innanzitutto è rossa, di un bel rosso vivo, acceso, poi è finemente cesellata. Anche qui la classe e l’attenzione per i dettagli, i particolari raffinati, denotavano la personalità e l’amore per il bello della mia ospite. Non feci in tempo a usarla, la porta si spalancò e il Sorriso mi accolse con un “benvenuto, finalmente!” Per i non habitué: il Sorriso è l’aura, il mood che si respira in questa casa ti accoglie, ti accompagna e ti fa da anfitrione guidandoti alla scoperta delle splendide sale e salotti che si aprono su corridoi vivificati da splendidi dipinti alle pareti. Ringraziai Sorriso, ma francamente non avevo bisogno della sua guida, conoscevo la dimora come le mie tasche… (sì, la chiave era ancora lì, verificai istintivamente).

Il brusio che saliva di tono a mano a mano che m’inoltravo lungo il corridoio segnalava che da lì a poco mi sarei trovato nel salone principale, quello delle feste, per intendersi. Capannelli di volti sconosciuti, moltissime presenze intraviste sporadicamente e, più in là, quasi in disparte, un crocchio di volti e voci conosciute. Un’escalation di suoni, parole e commenti che veleggiavano sulle teste degli astanti, rimbalzavano inesausti e andavano a morire sugli stucchi dorati dei muri. Affettai diversi sorrisi di circostanza, azzardai qualche ironico commento e proseguii, attraversando il salone con una rosa rossa in mano e un calice di Franciacorta nell’altra, alla ricerca della padrona di casa, memore della mia precedente visita con fuga finale “all’inglese”…

Non la trovai, o meglio, non riuscii a incontrarla. Farfalleggiava tra gli ospiti da perfetta padrona di casa commentando positivamente e con un sorriso accattivante ogni argomento o discussione che il suo innato senso dell’ospitalità catturava tra gli invitati. Consegnai a Sorriso la mia rosa, con la preghiera che fosse recapitata alla padrona di casa (la volta precedente la lasciai sul cuscino della sedia) e, sorseggiando le mie bollicine, mi avvicinai all’uscita del salone. Mi ritrovai su un corridoio a me del tutto sconosciuto, poco illuminato. La mia attenzione fu colpita da una porta chiusa, con i battenti affatto diversi per qualità e forma degli stessi, quasi fossero stati realizzati da una mano diversa, da un altro artigiano, sicuramente in epoca diversa, più recente. Mi avvicinai e fui colto dalla voglia irrefrenabile di entrare, di conoscere cosa celasse quell’uscio chiuso, cosa vi era di là da esso. Girai la maniglia, ma la porta non si aprì, era evidentemente chiusa a chiave. Non so perché, ma la mia mano finì in tasca e strinse tra le dita la chiave rossa. “Ci provo”, pensai. Infilai la chiave nella toppa e, con mia somma sorpresa, la stessa girò dolcemente, senza intoppi. Due scatti della serratura, girai la maniglia e fui dentro. Il buio avvolgeva la stanza, ma una lama di luce lunare entrava dalla finestra e illuminava di sbieco la scena.
Era spoglia, vuota o perlomeno quasi vuota.

Nel centro, postovi da una mano distratta e frettolosa, troneggiava un vecchio canterano, con la sua ricca sequela di cassetti chiusi come una serie di bocche cucite poco disposte a interloquire. La luce lo colpiva in pieno, mettendone a nudo con crudele evidenza le crepe, i tarli e le polverose tracce degli anni trascorsi in chissà quali soffitte. Rimasi molto colpito da questa scena, che contrastava decisamente con gli ori, le luci e lo sfavillio della dolce ma ricca opulenza dogale dell’ambente. Mi avvicinai, preso da un irrefrenabile impulso di curiosità e tirai a me il primo cassetto che avevo a portata di mano. Sentii un lamento, poi una voce dolorosamente mi redarguì, “Finalmente, ce ne hai messo di tempo, dove sei stato? Torna dentro!” Rabbrividii, poiché avevo riconosciuto la voce, era la mia. Sì, ero proprio io, vecchio canterano polveroso con i cassetti ricolmi di carte ingiallite zeppe di ricordi che, corrompendo con furbizia il Sorriso di guardia al palazzo, fuggivo dalla mia identità per folleggiare tra i riflessi rossi della laguna…

Non aspettai oltre, uscii di corsa dalla stanza, chiudendo la porta alle mie spalle e attraversai velocemente il salone affettando sorrisi di circostanza e saluti frettolosi. Un abbraccio affettuoso e il Sorriso divenne un ammiccamento complice e, sussurrandomi all’orecchio un “grazie” da parte della mia ospite, aprì il portone. Mi ritrovai seduto sull’ultimo dei gradini di marmo mentre lo sciabordio del canale m’inumidiva i piedi e tentavo goffamente di mettermi in comunicazione con Marco, il mio taxi driver. Lo sguardo mefistofelico del gabbiano (ancora ammollo nello stesso punto) seguiva i miei movimenti che si facevano viepiù nervosi, convulsi. Il riflesso rosso dell’acqua del canale colorava anche i miei lineamenti, dando alla scena un che di girone dantesco. Fu allora che, preso da un moto di follia, infilai la mano in tasca traendone la chiave rossa per gettarla lontano, nel canale, ma il movimento fece cadere in terra un foglietto che evidentemente avevo trovato nel cassetto del canterano e che poi, travolto dagli eventi, avevo infilato in tasca senza avere il tempo di leggerlo. Era piuttosto ingiallito, ma lo scritto, seppure sbiadito, era perfettamente leggibile:

“se il tuo posto non ha ricordo della tua presenza
e la tua voce non alza la polvere delle tue colpe
non illudere il tempo fuggendone il percorso
ma affrontane l’ingiuria, la chiave è nelle tue mani”

Ora il rosso stinge poco a poco, la luna riavvolge la coperta stellata, la pece della notte va morendo nel rosa acceso del mattino. Il capitano non è venuto, il gabbiano si è fatto lo shampoo ed io sono qui, seduto sul freddo di un gradino, le braghe zuppe dallo sciabordio dell’acqua, con un sorriso ebete stampato in volto, che giro e rigiro tra le dita questa enigmatica chiave rossa…

venerdì 12 agosto 2011

Il veleno nella coda


Un insignificante dolore in fondo.
Il distacco non fece rumore,
una rossa ferita che rimarginerà
scolorando la nuova stagione.

[rimane solo l’aspro sapore
di una vendetta non consumata]

Il peso del veleno ancora i miei passi,
come lo scorpione impazzisco
nella ricerca di una via di fuga
dal cerchio di fuoco che mi costringe.

[troncherò la coda]

Sarà più dolce il nuovo cammino.
Lieve, liberato dalla velenosa soma,
danzerò al ritmo di note inusuali
e il sapore del ribes arrossirà le labbra.

giovedì 11 agosto 2011

Spiove, governo ladro!


Non ho capito bene, forse ho confuso gli ultimi passi della danza, sta di fatto che invece di continuare, il temporale si è chetato e spiove. Non v’è traccia di arcobaleno, ma la pioggia ha spento il fuoco acceso e la danza è terminata con un caschè solitario del totem tra le mie braccia. Eppure avevo preparato tutto sin nei minimi particolari: tappetino di pelo di vacca pezzata steso davanti al tepee e tamburi in tinta accordati col diapason di tondino di ferro bresciano dallo stregone di Lacco Ameno, noto per le sue virtù divinatorie che sa infondere in tutto ciò che tocca. Maestro nella confezione di tamburi in legno di baobab nano e pelle di vacca pezzata, abilissimo artigiano iscritto alla CGIA di Mestre con bollini prepagati sulla tessera di socio onorario delle Cooperative Bianche e Rosse, ora tendenti al verde Lega visti i tempi. D’altro canto dopo che Il Senatur ha comunicato al colto e all’inclita di avere virtù divinatorie e - udite udite - anche delle idee, sto pensando seriamente di farmi venire un ictus, hai visto mai? Ora, come vi dicevo, nonostante abbia danzato intensamente tutta la notte (mi voleva Milly Carlucci a “Ballando sotto le Stelle” al posto del principino) la pioggia ha cessato improvvisamente di cadere ed io sono rimasto col classico pugno di mosche in mano (incazzate anzichenò, perché quando piove diventano isteriche e mordono). Così mi tocca scendere a valle, il cielo ora Rosseggia intensamente e per la valle rimbalza l’eco di una sonora pernacchia…Adieau, apprendista stregone dei miei stivali!  

Quand'ero piccolo...(tutto d'un fiato)


cinque sassolini corrosi dal sole e dal sale del mare
un pezzetto di vetro azzurro levigato come una caramella
due stecchetti del ghiacciolo ancora pallidi di verde menta
una manciata di bilie multicolore da giocarsi in feroci tenzoni
il costume da bagno in lana grezza che pizzicava le natiche
la voglia irrefrenabile di mare frustrata dalla beghina di turno
le suore che sciamavano pel cortile della colonia come formiche
la mensa soldatesca al grido il rancio è ottimo e abbondante
la biondina dagli occhi di cristallo della camerata accanto
il sorriso di un’amicizia nel coro per sfuggire la noia pomeridiana
l’innocenza di una mano nascosta dalla coda del pianoforte
la voglia di crescere per scoprire dove l’innocenza andava a morire
giocare sulla sabbia la destrezza nel cogliere al volo i sassolini
rapirli dal suolo velocemente  e lanciarli in aria ad uno ad uno…

[il blu del cielo ha rapito l’azzurro del mio sassolino di vetro]

…era ieri

Nel frattempo


Avevo tempo, così scrissi una lettera.
Non era un lessico di grandi pretese,
frasi buttate lì alla ventura, ancorate
al piccolo appiglio rimasto nel cuore.

Avevo tempo, così distrussi la lettera.
Brogliaccio zeppo di buone intenzioni
a braccetto con l’ipocrisia più becera
vocaboli desueti e parole insincere.

[ho poco tempo, ti scriverò domani
un legno mi attende giù al porto
salperò verso l’isola che non c’è
laggiù non ci sono cassette postali]

Nel frattempo, scrivimi.

martedì 9 agosto 2011

Avevo il morbillo


Mi venne il morbillo
quando decisero che era ora
che diventassi finalmente uomo.
Una miriade di puntini rossi
aveva trasformato la mia pelle
in carta da parati anni sessanta,
quella adatta per la cameretta del bimbo.

Mi venne il morbillo
quando attonito appresi
che le naturali polluzioni notturne
non erano un difetto del pannolino
che ancora tormentava le mie cosce
inconsapevoli dell’ingiuria imposta
alla mia prorompente e immanente virilità.

Mi venne il morbillo
quando dovetti per la prima volta
spiegare la mia inattesa debacle notturna
alla tardona che immaginava estasi
paradisiache da prestazioni ginnico/circensi
e che rimase di granito allo scoprire
che la ginnastica si fermava ai piedi del letto.

Mi è tornato il morbillo
quando infine ho scoperto
che tra le parole dal sen fuggite
non ho trovato comprensione alcuna,
ma solo tanta ironia e l’indifferenza
di chi vorrebbe importi di nuovo il pannolino
e misura il tuo esser uomo sul suo metro.

[ci vuole pazienza, dopotutto
sto ancora cancellando i puntini rossi…] 

La calle delle vedove


Finestre come sorrisi spenti che la notte illumina
mentre il brusio sale per la calle, le ombre cinesi
si rincorrono sui muri scrostati inseguendosi ratte
in pose invereconde dimentiche degli anni andati.

Colori incredibili di chiome ridipinte ridono al vento,
l’abile paraninfo che spazza la polvere dalle voglie,
promette frenetiche danze al ritmo di antichi respiri
che di notte si fondono sciogliendo amori mai sopiti.

Mentre il canto indecente rimbalza sull’acciottolato
i sorrisi piano si spengono, le finestre come bocche
serrate disegnano il sonno nella calle delle vedove
e il mare richiama le onde sbarazzine, il vento tace.

E il mio sorriso ancora acceso…

sabato 6 agosto 2011

Lasciatemi qui

Tamburelli come martelli gentili scuotono l’anima
il ritmo cattura, il fumo acre della legna trasporta i sensi
desiderio di liberi soli, di mari lontani, terre straniere.
Ha piccole ali, ma grande volontà, l’airone a testa ingiù
che nel blu profondo sogna una stagione da cormorano.

Balla, vecchio zingaro dei sentimenti, nomade della fantasia
questa danza è per te, il violino ora si accompagna
al ritmo frenetico che percuote gli animi, mentre tu cerchi
l’ombra inesausta che insegue il tuo girovagare tra gli inverni
che ancora non ti appartengono, ma ti attendono al passo.

Non ho bagagli, pesi da trascinare col mio incedere bolso.
Some e zimarre pesanti ho lasciato nel mio peregrinare
barattati con cieli limpidi con cui cibare i miei polmoni.
Stanotte ballerò, benché l’inquietudine sfinisca i miei passi
sì, consumerò il poco azzurro dei cieli rimastomi in dote.

Lasciatemi qui, i tamburelli chiamano.

venerdì 5 agosto 2011

...e il mare dintorno...

Una fitta lancinante, uno stropicciato fruscio
e il mio volo traverso muore su questa bricola.
Osservo, il capo reclinato, l’insolito planare
della penna timoniera che si avvita lentamente
e dolce va ad ammarrare sul crespo delle onde.
Il mio timone, la mia guida sicura lassù nel cielo,
improvviso mi ha lasciato orbo dei suoi occhi.
Ora lieve, come stranito e inconsueto naviglio,
solca dondolando e senza alcun rumore il mare.

Seguo rassegnato il suo mutevole navigare
mentre allontana inesorabilmente la speranza
di futuri voli con rotte sicure, così senza governo.
L’illogica linea che laggiù recita l’inizio dell’infinito
attende il piccolo relitto per fagocitarne l’arrivo.
Il cielo incendia l’orizzonte e la vampa proietta
una piccola ombra che piano scolora nel cobalto.
Chiudo gli occhi feriti dal furore dei riflessi ramati,
mentre artiglio nel sonno il mio incerto domani.

…e il mare dintorno…