crepuscolare intesa tra versi e immagini.

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sabato 20 agosto 2011

La chiave rossa


[Serata torrida, umidità da bagnomaria. Decido che fare “quatro ciàcoe” in quel di Venezia, nel salotto buono della venexiana più ospitale della laguna sarebbe stata un’idea da Oscar, la cui brillantezza mi avrebbe inorgoglito per parecchio tempo. Ipso facto, rompo “il porcellino del pensionato”, racimolo una manciata di euri e mi accingo ad accendere un mutuo per pagare il taxi driver lagunare che mi avrebbe traslocato sino alla magione ambita.]

Infilo un paio di braghe decenti, arraffo i conquibus e mi fiondo in darsena, a Chioggia, dove il fido capitano Marco mi attende sul suo bragozzo Ulisse I per traghettarmi sino alla calle gentilizia dove il Rosso Veneziano del palazzetto si specchia nel canale. Classica decorazione delle finestre, col bianco calce che ne disegna il profilo e quell’aura di dolce opulenza che trasuda da ogni particolare. Non dirò, nemmeno sotto tortura, dove si trova questa meraviglia architettonica, né tanto meno svelerò il percorso che il navigato capitano ha fatto per canali e rii sino ad arrivare a destinazione, dirò soltanto che il bragozzo attraccò dolcemente alla sponda del canale dove un portone verde bottiglia abbagliava il rosso riflesso dell’edificio con lo splendore e il luccichio dei suoi ottoni. Il rosso, già. Questo colore sarà il fil rouge di tutta la serata, inevitabilmente.

Mentre metto a repentaglio la mia integrità fisica con un balzo sul cemento, la coda dell’occhio viene attirata da una scena inusuale: un gabbiano dondolante sull’acqua osservava  come inebetito il suo candido piumaggio assumere toni di rosso acceso che col dondolio sfumavano dolcemente in rosa antico per poi morire tra i riflessi sanguigni del canale. Tre gradini e fui dinanzi al portone. Istintivamente misi una mano in tasca e trovai l’amichevole contatto con la chiave, la chiave di “casa”. Non stupitevi, la padrona di casa, vista la mia assidua frequentazione del suo salotto, mi fece dono della chiave, come segno di amicizia e di stima nei miei confronti. Oh, ma non è una chiave diciamo così, normale, innanzitutto è rossa, di un bel rosso vivo, acceso, poi è finemente cesellata. Anche qui la classe e l’attenzione per i dettagli, i particolari raffinati, denotavano la personalità e l’amore per il bello della mia ospite. Non feci in tempo a usarla, la porta si spalancò e il Sorriso mi accolse con un “benvenuto, finalmente!” Per i non habitué: il Sorriso è l’aura, il mood che si respira in questa casa ti accoglie, ti accompagna e ti fa da anfitrione guidandoti alla scoperta delle splendide sale e salotti che si aprono su corridoi vivificati da splendidi dipinti alle pareti. Ringraziai Sorriso, ma francamente non avevo bisogno della sua guida, conoscevo la dimora come le mie tasche… (sì, la chiave era ancora lì, verificai istintivamente).

Il brusio che saliva di tono a mano a mano che m’inoltravo lungo il corridoio segnalava che da lì a poco mi sarei trovato nel salone principale, quello delle feste, per intendersi. Capannelli di volti sconosciuti, moltissime presenze intraviste sporadicamente e, più in là, quasi in disparte, un crocchio di volti e voci conosciute. Un’escalation di suoni, parole e commenti che veleggiavano sulle teste degli astanti, rimbalzavano inesausti e andavano a morire sugli stucchi dorati dei muri. Affettai diversi sorrisi di circostanza, azzardai qualche ironico commento e proseguii, attraversando il salone con una rosa rossa in mano e un calice di Franciacorta nell’altra, alla ricerca della padrona di casa, memore della mia precedente visita con fuga finale “all’inglese”…

Non la trovai, o meglio, non riuscii a incontrarla. Farfalleggiava tra gli ospiti da perfetta padrona di casa commentando positivamente e con un sorriso accattivante ogni argomento o discussione che il suo innato senso dell’ospitalità catturava tra gli invitati. Consegnai a Sorriso la mia rosa, con la preghiera che fosse recapitata alla padrona di casa (la volta precedente la lasciai sul cuscino della sedia) e, sorseggiando le mie bollicine, mi avvicinai all’uscita del salone. Mi ritrovai su un corridoio a me del tutto sconosciuto, poco illuminato. La mia attenzione fu colpita da una porta chiusa, con i battenti affatto diversi per qualità e forma degli stessi, quasi fossero stati realizzati da una mano diversa, da un altro artigiano, sicuramente in epoca diversa, più recente. Mi avvicinai e fui colto dalla voglia irrefrenabile di entrare, di conoscere cosa celasse quell’uscio chiuso, cosa vi era di là da esso. Girai la maniglia, ma la porta non si aprì, era evidentemente chiusa a chiave. Non so perché, ma la mia mano finì in tasca e strinse tra le dita la chiave rossa. “Ci provo”, pensai. Infilai la chiave nella toppa e, con mia somma sorpresa, la stessa girò dolcemente, senza intoppi. Due scatti della serratura, girai la maniglia e fui dentro. Il buio avvolgeva la stanza, ma una lama di luce lunare entrava dalla finestra e illuminava di sbieco la scena.
Era spoglia, vuota o perlomeno quasi vuota.

Nel centro, postovi da una mano distratta e frettolosa, troneggiava un vecchio canterano, con la sua ricca sequela di cassetti chiusi come una serie di bocche cucite poco disposte a interloquire. La luce lo colpiva in pieno, mettendone a nudo con crudele evidenza le crepe, i tarli e le polverose tracce degli anni trascorsi in chissà quali soffitte. Rimasi molto colpito da questa scena, che contrastava decisamente con gli ori, le luci e lo sfavillio della dolce ma ricca opulenza dogale dell’ambente. Mi avvicinai, preso da un irrefrenabile impulso di curiosità e tirai a me il primo cassetto che avevo a portata di mano. Sentii un lamento, poi una voce dolorosamente mi redarguì, “Finalmente, ce ne hai messo di tempo, dove sei stato? Torna dentro!” Rabbrividii, poiché avevo riconosciuto la voce, era la mia. Sì, ero proprio io, vecchio canterano polveroso con i cassetti ricolmi di carte ingiallite zeppe di ricordi che, corrompendo con furbizia il Sorriso di guardia al palazzo, fuggivo dalla mia identità per folleggiare tra i riflessi rossi della laguna…

Non aspettai oltre, uscii di corsa dalla stanza, chiudendo la porta alle mie spalle e attraversai velocemente il salone affettando sorrisi di circostanza e saluti frettolosi. Un abbraccio affettuoso e il Sorriso divenne un ammiccamento complice e, sussurrandomi all’orecchio un “grazie” da parte della mia ospite, aprì il portone. Mi ritrovai seduto sull’ultimo dei gradini di marmo mentre lo sciabordio del canale m’inumidiva i piedi e tentavo goffamente di mettermi in comunicazione con Marco, il mio taxi driver. Lo sguardo mefistofelico del gabbiano (ancora ammollo nello stesso punto) seguiva i miei movimenti che si facevano viepiù nervosi, convulsi. Il riflesso rosso dell’acqua del canale colorava anche i miei lineamenti, dando alla scena un che di girone dantesco. Fu allora che, preso da un moto di follia, infilai la mano in tasca traendone la chiave rossa per gettarla lontano, nel canale, ma il movimento fece cadere in terra un foglietto che evidentemente avevo trovato nel cassetto del canterano e che poi, travolto dagli eventi, avevo infilato in tasca senza avere il tempo di leggerlo. Era piuttosto ingiallito, ma lo scritto, seppure sbiadito, era perfettamente leggibile:

“se il tuo posto non ha ricordo della tua presenza
e la tua voce non alza la polvere delle tue colpe
non illudere il tempo fuggendone il percorso
ma affrontane l’ingiuria, la chiave è nelle tue mani”

Ora il rosso stinge poco a poco, la luna riavvolge la coperta stellata, la pece della notte va morendo nel rosa acceso del mattino. Il capitano non è venuto, il gabbiano si è fatto lo shampoo ed io sono qui, seduto sul freddo di un gradino, le braghe zuppe dallo sciabordio dell’acqua, con un sorriso ebete stampato in volto, che giro e rigiro tra le dita questa enigmatica chiave rossa…

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