crepuscolare intesa tra versi e immagini.

crepuscolare intesa tra versi e immagini.

mercoledì 29 febbraio 2012

Di grembiuli bianchi, aghi e occhi azzurri


non ricordo il nome
di quel grembiule bianco,
sorridente

non ricordo nemmeno
se mai l’ho visto,
davvero

-arcani veli confusi alla vista-

quei vetri su croci d’acciaio
insulti di giallo veleno,
tra gli aghi

nell’azzurro meravigli
gli occhi ricordando il nome,
Anna*

-forse-

* 2005 - Day Hospital Clinica Ematologica di Padova


Nelle mani (in punta di dita)

racconto a puntate
frasi sbeccate sull’orlo,
le labbra
le anche distanti,
solo a momenti
e intese acquietate
rincorrono capoversi,
ansiose

-in punta di dita, le pieghe-

squaderno le pagine
di questo amore rilegato,
col refe
ora sigillano
dorsi intarsiati
leggo la luna calante
negli occhi giunta la fine,
chiudo

-nelle mani, gocce d’amore-

martedì 28 febbraio 2012

Nelle mani (in punta di lingua)

nel sottobosco, poi
lamponi, mirtilli
dolcezze rapite
tra labbra incatenate

e batuffoli di cielo
occhieggiano
tra il verde
riflessi d’azzurro, noi

- in punta di lingua, la tavolozza-

elfi giganti di passo lieve
tracciano scie
sulla magica tela
a ruzzoloni nella controra

-nelle mani, coppe di fragola-

lunedì 27 febbraio 2012

Nelle mani (in punta di piedi)

dietro il rovo le more
là sul greto
riflesso lunare
a mezzogiorno,  
sul seno

-in punta di piedi, le ciglia-

quadretti scozzesi
rosso e blu
cotone appeso
sui sassi ad asciugare,
il giorno

-nelle mani, il sorriso-

Nelle mani (in punta di matita)

pantaloni alla coscia
calzini bianchi
della prima comunione
una lametta da barba
e la matita tra le dita

-gli occhi di mio padre-

nelle mani in punta
il dardo di grafite
fierezza artigiana
dei quaderni tra aste
e fantasmi di lettere

la mia vita il legno
appuntito d’anima nera
la lametta incartata
nella stagnola
e l’orgoglio nel taschino

-negli occhi, mio padre-

domenica 26 febbraio 2012

Tic Tac














Volevo fare l’orologiaio,
da piccolo.

Riempivo fogli a quadretti
di minuziosi particolari.
Aurei ingranaggi filigranati,
bilancieri dispensatori
d’imparziali briciole di tempo,
ancorette guardiane.

-tic tac-

Il tempo annichilì
velocemente tra bilancieri,
ruote dentate, bariletti
e rubini, piccole gocce
di sangue incastonate
che scandiscono la vita.

La pazienza rimase,
avvitata a piccole mani.
Inconsueta dote di bimbo
che calza la fretta di vivere
e rincorre lancette dispettose
andando controcorrente.

-tic tac-

S’è fatto tardi, c’è vento.
Ho perso i fogli a quadretti
e i rubini hanno macchiato
briciole di tempo venduto.
Incastrato tra le ruote della vita
il bilanciere pulsa asincrono.

Volevo fare l’orologiaio,
da piccolo.

Pazienza.

Nero Notturno Bolero

sabato 25 febbraio 2012

Il respiro della luce

pende dal poggiolo distrattamente, come morto
forse lo diresti avvizzito, ma forse sta fingendo
l’ultimo geranio un dì carminio acceso
ora si confonde triste con la ruggine del vaso

lo sguardo viaggia oltre, veleggia verso il molo
stanotte anche il freddo mistifica la stagione
come nell’improvviso vuoto di camera iperbarica
la calle rimanda solo il canto del mio respiro

[aria, ho bisogno d’aria]

ho i brividi ma in fondo penso che l’ho voluto
cercavo un respiro che aprisse il cuore al pianto
il giorno che ho visto morire nacque indifferente
mi fu patrigno annoiato, non mi disse il perché

cerco lassù una crepa tra il nero incombente
una piccola ragione di luce, seppur lontana, distante
un segno che mi dica “ecco ti sto guardando
non cercare recondite ragioni, ti sono accanto”

[aria, ho bisogno d’aria]

perché stanotte anche i gabbiani tacciono affranti?
l’anima urla nel silenzio irreale una tristezza immotivata
guardo con distacco il capo reclinato del geranio
il rosso dei suoi petali svilisce alla luce del lampione

un gesto deciso ed è finto stupore il suo morire planando
come sanguinante ferita appare sul grigio selciato
torna lo stridio dei gabbiani, la calle ha l’eco consueta,
cerco con gli occhi lassù, ora una crepa si è aperta

respiro una piccola luce

Pensieri corti (I° cap.)

amore al mare

Nutrivo con acqua di mare
le foglie di un giovane amore
bruciato ai raggi del sole
è rimasto un pugno di sale.

****
amore rappreso

Come sangue rappreso
su un cuore ferito
da un amore concluso
in attesa di cicatrice.

****
breve amore

Cuore di panna
rosse labbra di fragola
breve amore.

****
come un cane

Accucciato come un cane
attendo il tuo ritorno.
Il vento mi porterà la tua fragranza.
Aspetto e fiuto.

****
e chiudi la porta

Così te ne vai.
La finestra aperta lascia entrare
il vento gentile della mattina.
Fragranze e profumi a me noti
alleviano il mio dolore.
Chiudi bene la porta quando esci.

Piano, per favore.

venerdì 24 febbraio 2012

Due piccole foglie di castagno


A guardare bene, aguzzando gli occhi là, oltre il limite di quella collina, tra un castagno e l’altro, il rosso dei coppi spuntava come fiamma di vita esplosa verso il blu del cielo. Ogni volta, alla loro vista, un senso di angoscia mi prendeva, conoscevo a memoria quali sarebbero state le mie mosse successive, i miei pensieri, le mie paure. Conoscevo quel tetto, quel cappello rosso che proteggeva la casa oggetto della mia inquietudine delle mie apprensioni. Spuntava dal verde in lontananza come un fungo, uno di quei classici funghi bellissimi al vedersi ma altrettanto velenosi e letali. Mura di calce bianchissima, stranamente candide, virginee, senza il minimo segno dello scorrere del tempo e delle intemperie circondavano la costruzione. Una porta di legno di castagno massiccio, imposte dipinte di un verde improbabile che denotavano la voglia di mimetizzarsi, di non insultare oltremodo l’ambiente circostante con la loro presenza avulsa dal contesto. Desiderio represso di essere accettata come parte integrante del panorama, della natura che la nascondeva e in qualche modo la fagocitava. Mi era capitato spesso di incrociarla, a volte me la trovavo dinanzi all’improvviso, quasi spuntasse dal suolo così, come i funghi nel profondo delle forre o ai piedi degli alberi. I castagni, appunto. Pareva vivesse di vita propria, autonoma, completamente indifferente all’insulto che la sua presenza recava alla quiete e allo scorrere della vita silvana. Appariva e scompariva, sempre uguale, arrogante con i suoi colori sempre vivi, splendenti, come se un misterioso truccatore ne curasse l’aspetto, rinnovandone la vivezza dei toni di volta in volta. Finché un giorno decise. Si stabilì definitivamente là, tra i castagni, oltre il limite della collina. Inevitabilmente il mio sguardo correva lì ogni volta e come sempre quel senso di vuoto, misto a morbosa curiosità, mi attanagliava lo stomaco…

[è un lungo trascinare l’anima pei campi
aridi solchi dove il grano germoglia annoiato
ai piedi del colle che lo assiste accigliato
c’è quel sentiero che allarga l’orizzonte
sali a cogliere l’azzurro, abbandoni il solco
oltre il limitare del tuo sguardo, tra i castagni,
il sole sta morendo, ma tu non te ne accorgi… ]


Divoro la distanza a passi concitati, mi avvicino a lei con circospezione e timore ma con una voglia incontrollabile di entrare, violare quella inquietante, insopportabile arroganza. Come sempre mi fermo dinanzi all’uscio, una sorta di tremore montante impedisce i movimenti, mentre rivoli di sudore gelato scendono lungo la schiena e le gambe si fanno di gesso. Così, mentre combatto contro la mia stupida, seppure concreta paura, nella mente lentamente vanno formandosi immagini in rapida sequenza, come in un film, in slow-motion. Apro la porta senza alcuna difficoltà. Un ingresso anonimo mi accoglie, pochi mobili in legno di castagno, un tavolino là, un divanetto qua. Sul muro carta da parati di gusto un po’ pacchiano: malinconiche foglie gialle e verdi si rincorrono falsi simulacri di una natura ormai asservita. Ecco che mi vedo mentre percorro i pochi metri dell’ingresso, superando il tavolino alla mia sinistra mi ritrovo nel salone. Un pianoforte attende muto in un angolo, un divano dalla tappezzeria in nuance con quella del muro, anche qui foglie gialle e verdi sparse in forzata allegria, sembra attendere tronfio e discretamente annoiato. Mi siedo, sono stranamente stanco, quasi avessi percorso chilometri in quel bosco. Ora posso guardarmi intorno con più calma, il salone è grande, forse troppo, ho l’impressione che qualcosa non funzioni, la casa sembra avere un unico locale, pare non ci siano altre stanze . Tutto in ordine, le suppellettili, i mobili, tutto lindo e pulito. Sembra quasi che un’impresa di pulizie abbia terminato il suo lavoro da poco. Eppure una strana atmosfera, un’indefinita sensazione di vecchio e di polveroso mi prende alla gola, quasi avessero da poco alzato un sipario e avessero rinnovato la scena lucidando e pulendo ogni dove per la bisogna, per una nuova recita. L’iniziale stupore lascia il posto a un più regolare battito del cuore e i pensieri più razionalmente cominciano ad affollare la mia mente. A questo punto una strana sensazione mi pervade: io questo posto lo conosco! Qui ci sono stato altre volte, sono sicuro. All’improvviso tutto ha un sapore di dejà vu, già vissuto.

[al dolore del richiamo risponde l’ignavia
se la ragione non ti interpella il cuore non mente
è inutile fuga verso l’approdo sicuro…]

Mi alzo di scatto, il sudore ha ripreso a scorrere lungo la schiena e non risparmia neanche le mie mani. A passi malfermi, quasi circospetti mi avvio verso la porta con un unico desiderio: uscire, fuggire da questa casa, dall’angoscia che mi trasmette. Un particolare attira la mia attenzione mentre sto per uscire: sopra il tavolino di castagno è appeso un quadro. Niente di strano, penso, ma è appeso al contrario, mostra di sé il retro, nascondendo l’immagine contro la parete. Nonostante l’apprensione che mi avvince, la curiosità mi costringe, mi fermo. Con mano insicura stacco il quadro dal muro, lo giro e…mi vedo, sì mi vedo! Sono io in una fotografia recentissima, seppure riprodotta in color seppia, quasi fosse un’antica dagherrotipia di fine ottocento. Tutto gira intorno a me, mi aggrappo invano al tavolino e cado. Il rumore del comodino di castagno nella mia camera fa da eco all’imprecazione che fuoriesce quasi vendicatrice, liberatoria del terrore che mi ha accompagnato sinora. Siedo sul bordo del letto mentre a pugni chiusi, il cuore a mille, urlo a me stesso: è un incubo! Sì è stato un incubo, solo un incubo…Una fitta dolorosa mi attraversa la mano. Lentamente, dolorosamente, nonostante le nocche livide dallo sforzo e con il cuore che accelera, apro il pugno e scopro il motivo del dolore che poco prima mi aveva attraversato: stringo fra le dita una chiave! Una stupida, banale chiave di ottone, comunissima come tante, se non fosse per un particolare, su un lato c’è un’incisione smaltata, una miniatura. Due foglie di castagno, una gialla e una verde… I coppi rossi laggiù, oltre il limite della collina, mi stanno aspettando. 

giovedì 23 febbraio 2012

Sui binari














“Ciao.”
-Ciao.-
“Posso sedermi accanto a te allora…?”
-Se proprio vuoi..-
“Vedi, ho preparato anche la valigia…”
-Ah, sì…?-
“Sì, ci ho messo dentro di tutto, guarda qui: dodici tappi di bottigliette colorati…
pensa c’è anche quello del Chinotto..rarissimo…”
-Chinotto? Cos’è…?-
“È una bibita dolce, lo sai? Beh, comunque ho anche un sacchetto di biglie di vetro colorate bellissime, il biglione ne vale 20… vuoi fare uno scambio?”
-Uno scambio? E con cosa…?-
“Io ti do il biglione e t u mi dai il tuo naso da pagliaccio…vuoi?”
-Non se ne parla nemmeno!-
“Beh ho messo dentro anche dei fumetti del Piccolo John, di Tex Willer,…ti piacciono i fumetti…?”
-Sì, ma non quella roba lì…-
“Pensa ho anche una fionda, ne ho prese di lucertole…ero un po’ malandrino da piccolo…”
-Malandrino?...Che vuol dire..?-
“Ehm…birbantello, indisciplinato…”
-Ah…?!-
“Allora non vuoi fare scambio, non ti piace niente di quello che ho?”
-No…cos’è quel pezzo di carta lì in fondo? Sembra la lista della spesa..-
“No, è una poesia…”
-Poesia? E che roba è?...Mica vorrai scambiarla col mio naso da pagliaccio…-
“No, a dire la verità è rimasta lì dentro dall’ultimo viaggio che ho fatto…”
-Va beh, non hai altro? Che fai qui allora?-
“Non ti sono simpatico, vero?”
-No, sei vecchio e i vecchi quando vogliono far ridere fanno piangere.-
“Ho capito…È già passato il treno?”
-No, e non passerà mai di qui!-
“E perché?”
-Perché è un binario morto…-
“E allora tu che ci fai qui? I binari morti sono per i vecchi…”
-Appunto, ciaoooo….!-

Sarà tristezza?


È un velo, una trina aerea.
Cesello d’Aracne traspare negli occhi
e trattiene la rugiada dell’anima.
Pensieri si accavallano, si rincorrono.
Il cassetto inghiotte i pochi attrezzi
del mestiere di vivere rimastimi.

[un sorriso esagerato dipinto
nel rosso di labbra esangui,
una risata chioccia e improbabile
rubata allo specchio stamani,
e un’anima da pagliaccio inquieto
alla ricerca di arcobaleni materni]



Tutto sparito, fagocitato dal canterano.
Una stilla di rugiada dondola indecisa
se aprirsi a cateratta o rinsecchire
tra le ciglia nel rimpianto futuro.
L’eco argentina che risuona dappresso
strappa la tela e la tristezza svanisce.

Sarà tristezza…?

Ti direi...


ti direi…
guardandoti, sorridi…
poi mi sono accorto
che già lo avevi negli occhi
e allora mi sono perso
inseguendo il tuo sguardo

[sì, forse i pagliacci
hanno il cuore dipinto
e negli occhi il sorriso
ma l’anima quella no,
quella non tradisce,
lassù imbroncia il cielo
e gonfia le nuvole]



ti direi…
c’è l’azzurro nascosto
tra quelle ciglia abbassate,
sai, la tristezza non esiste,
è invenzione di uomini
che non sanno più giocare

Ti direi…fammi posto…

I conti alla fine tornano sempre...

Vorrei non saper far di conto
per non misurare i passi mancanti.
Quattro gambe su e giù ogni giorno
e una croce a matita sul calendario.

[basta un giorno di anno bisestile
per mandare i piedi in confusione]

Avrei fatto volentieri a meno
delle dita, per non vederle smarrite
nel rincorrere cifre improbabili
dimentiche degli anni nelle nocche.

Ho deciso porterò gli zoccoli,
le orecchie conteranno i rintocchi.

Sarà il tempo a tirare le somme.

mercoledì 22 febbraio 2012

Ho ritrovato il mio palcoscenico

[siamo entrati a spettacolo iniziato
buio in sala, sul teatrino allestito
Pulcinella schioccava le mani di legno
ritmando in falsetto “Core Ingrato”
due mascherine là, in prima fila,
applaudivano la buffa scenetta]

Oggi i miei nipotini mi hanno portato
a vedere lo spettacolo dei burattini.

Seduto quattro file più indietro,
il mento appoggiato alle mani,
nel buio della sala ho inumidito
il velluto della poltroncina.
Dio quanto tempo!
E quanto mi sono mancati
questi autentici interpreti della vita!
Nel loro raccontare il mondo
mi sono ritrovato, mi sono rivisto.
Io, burattino dagli arti di legno
con il cuore ridipinto di rosso,
animato da un burattinaio monco
ho interpretato tragedia e farsa
su un palcoscenico sbagliato.

Non ho divertito tutti,
ma ho fatto del mio meglio.

All'Università della terza età

Ti scrivo perché ormai so dire
solo nome cognome e codice fiscale,
le parole sono frecce avvelenate
e le intendono solamente i sordi.

Avevo un bouquet di rose per te
è sfiorito senza parlare.

Mi avevano detto: ditelo con i fiori.

Ieri finalmente ho parlato, ho detto sì.
Hanno chiamato l’autombulanza
era svenuta la commessa del negozio
non aveva retto all’emozione.

Ho chiesto a cenni un posto dove sedere
non ho profferto parola, visti gli esiti.
Mi hanno detto che qui non c’è il pack
dove lasciare a svernare i vecchi loquaci.

Mi avevano detto: ditelo con le mani.

Prima o poi lo farò.

lunedì 20 febbraio 2012

Tu, dolce malinconia

Chissà perché la pioggia che riga i vetri,
quando anche il cielo è di pessimo umore
e sfoga le sue futili idiosincrasie tessendo
grigie trame, fitte come un ricamo abortito,
ci appare come lo scorrere di dolci lacrime
che si tuffano nel mare placato dei ricordi.

Chissà perché il canto del vento tra le gelosie,
quando anche i capelli arruffati ridono al sole
e rincorrono invidiosi il volteggiar delle farfalle
che accorrono al primaverile banchetto fiorito,
ci cattura come un ammaliante, dolce assolo
che un impareggiabile interprete offre al cuore.

Chissà perché ora, che tra pioggia e vento
spesso le mie giornate si srotolano inesauste
cercando invano dolci lacrime scorrere sui vetri
mentre celo l’orecchio al fischiare della bora
e alieno i pensieri nel grigio metallo del cielo,
sospiro il sorriso come una farfalla infreddolita.

Dimmelo tu, dolce malinconia. 

La nave va...

La luce fioca della lampada traballante al vento danza le ombre
il lampione arrugginito si piega come fuscello al verde
le lastre sconnesse del selciato giocano a rimpiattino su e giu.
Chiazze di acqua sporca nascondono insidie di piovre tentacolari
il barattolo rotola urlando metallo duro a spaventare i gabbiani
mani in tasca, bavero alzato ciondolo disarticolato, indeciso.

La panchina è sempre là in attesa, come ogni sera, alcova materna
mentre inciampo in una nuvola e mollo gli ormeggi, la nave va…
Ormai è largo mare, il riflesso argento della luna attira e confonde,
vento in poppa la fantasia naviga, controllo la rotta facilmente
da vecchio lupo di mare, esperienza navigata presso tutti i porti
della vita, angiporti fetidi, bettole infrequentabili, tutte scorie ormai.

Ora è mare aperto, anche la laguna è un ricordo, da lassù
l’ancora fende le nuvole, sorrido soddisfatto mentre accosto.
Seduto sulla panchina osservo con tristezza la nave disancorata
che veleggia lentamente tra nuvole di perla allontanandosi…
Ciondolo stancamente evitando tentacoli di piovre fameliche
l’urlo metallico del barattolo come sirena ne sottolinea la partenza.

Un ultimo sguardo alle nuvole lassù, la nave va…

Ditemi perchè

Ditemi perché dovrei fare del mio cuore una pietra
ora che il fiume degli anni ha finalmente sciolto
la corazza artefatta del quotidiano scorrere degli affanni.

Ditemi perché il bianco che incornicia ormai il mio ritratto
debba preludere a una risibile e timida vergogna
ora che anch’io so chiamare per nome i miei sentimenti.

Ditemi allora che anche se la mia voce si è fatta sorda
udite egualmente il mio stridere di gabbiano ferito
che grida all’approdo tutto l’amore che aveva tra le ali.

Ditemi perché, ora che mi udite.

Ci sono in questa fiaba, se non salgono sulla macchina del tempo:
Marzolina: bimba capricciosa come il tempo a Marzo
Ing. Dentone: castoro progettista della macchina
Ratto Distratto: aiutante dell’Ing. Dentone
Gnomo Astolfo: gnometto pazzerellone

Marzolina, una bimba nata a Marzo, bellissima ma infinitamente capricciosa, incontra durante una sua fuga nel bosco per sfuggire ai rimproveri della mamma,  Gnomo Astolfo un gnometto intrigante e pazzerellone …

…<< Chi sei?>> – chiese Marzolina vedendo spuntare dal guscio abbandonato di una lumaca un piedino.<< chi sei?>> chiese di nuovo mentre piano piano un piccolo essere usciva dal guscio e stiracchiandosi riacquistava la sua statura….per modo di dire, poiché la sua altezza raggiungeva a malapena quella del più alto dei funghi del bosco, pensate un po’…la “Mazza di Tamburo”, un fungo alto, bellissimo che aperto  sembra un ombrello.
<<Come, non mi conosci? -disse il piccolo essere- sono Astolfo Gnomo di questo bosco, signore e padrone di tutto ciò che vedi>>  <<Bum!>> rispose Marzolina che in fatto di bugie non era seconda a nessuno, le raccontava così grosse e così seriamente che alla fine lei stessa pensava di avere detto la verità. <<Mi stai prendendo in giro - continuò Marzolina - comunque piacere di conoscerti, mi stavo annoiando tutta sola qui nel bosco>> così dicendo si sedette su  un tronco per essere all’altezza del gnometto e lo guardò dritto negli occhi <<Sono stufa di questo mondo, nessuno mi capisce, nemmeno i miei genitori…vorrei tanto essere da un ‘altra parte, in un altro posto.>> disse e cominciò a piangere.  Astolfo conosceva bene quel tipo di pianto, era il classico pianto di bimba capricciosa, perciò decise di assecondarla e di scoprire fin dove quel capriccio di bimba potesse arrivare. D’altronde era pur sempre uno Gnomo burlone e non si fece sfuggire l’occasione per prendere in giro Marzolina e divertirsi un po’ alle sue spalle. Così disse con voce suadente <<Via, non piangere, vedrai che tutto si aggiusterà. Sai io sono uno Gnomo ed ho potere assoluto sulle creature di questo bosco, troveremo una soluzione! Anzi ho già un’idea….>> Marzolina alzò gli occhi verdi come la livrea del più bello dei ramarri e, asciugandosi con il dorso della mano il nasino pieno di lentiggini, disse: <<Davvero? Mi piacerebbe molto…ma che facciamo adesso?>> <<Lo scoprirai – rispose Gnomo Astolfo - intanto rassettati che dobbiamo andare a conferire con un personaggio importante>>. Così dicendo si inoltrò nel fitto del bosco costringendo Marzolina a rincorrerlo per non perderlo di vista. Astolfo, nonostante la statura, era velocissimo e Marzolina dovette correre un bel po’ prima di raggiungerlo. Quando lo raggiunse  lo gnomo stava raccogliendo delle stranissime bacche rosse da un arbusto che Marzolina non aveva mai visto nel bosco. <<Perché raccogli quelle bacche?>> chiese la bambina  <<Vedrai…vedrai..ti serviranno…vedrai…>> così rispose lo gnomo e riprese a camminare velocemente. Quando Marzolina lo raggiunse Astolfo era sulla riva di un torrente che scorreva impetuosamente con acqua trasparente come il vetro e un rumore argentino che veniva però interrotto di tanto in tanto da colpi secchi che sembravano provenire da un punto non lontano nascosto da una catasta di legno. Da quella catasta sbucò improvvisamente un castoro. I suoi denti erano enormi e sporgenti e per questo era chiamato Dentone, anzi Ing. Dentone, per via della sua abilità a costruire qualsiasi cosa con il legno che lavorava abilmente con i denti. <<Cosa volete? Perché mi interrompete mentre sto lavorando?>>– disse con fare arrabbiato – poi si accorse della presenza dello gnomo e si calmò. <<Ah sei tu Astolfo, chi é questa bimba che è con te?>>> chiese riprendendo a lavorare con fare indaffarato <<Lei è Marzolina – rispose lo gnomo – e ha bisogno del tuo aiuto, perché vuole andarsene in un altro posto, in un altro tempo, lontano dai suoi genitori che non la capiscono.>> Dentone si fermò di colpo, preso un metro da una vecchia cassetta di attrezzi lì vicino e incominciò a misurare Marzolina e andare avanti e indietro entrando e uscendo da un buco che era scavato a fianco della catasta. Alla fine disse <<Ho fatto i conti, si può fare…si può fare…costruirò una macchina speciale che esaudirà i desideri questa bimba dai capelli rossi così bella ma così capricciosa >> <<Ratto ….Ratto>> urlò all’indirizzo del buco da cui era uscito e comparve svogliatamente un topolino che stiracchiandosi disse <<Eccomi che c’è?>> . Ratto Distratto era l’assistente  dell’Ing. Dentone, gran lavoratore ma disastrosamente distratto, combinava un sacco di guai e spesso rovinava il lavoro di Dentone. Il castoro si mise al lavoro e disse a Marzolina <<Torna domattina, tutto sarà pronto e ciò che vuoi sarà esaudito>> Gnomo Astolfo prese per mano la bimba e disse <<Andiamo, sta calando la sera e di notte il bosco è molto buio…torneremo domattina>> e riprese a camminare tornando velocemente verso il bosco.  <<Stanotte dormiremo qui>> disse indicando una vecchia tana di volpe abbandonata . Accese una lucciola chiedendole scusa per il disturbo e sorridendo porse a Marzolina una delle bacche rosse che aveva raccolto dicendo <<Questa bacca ti farà passare la fame  e così farai un bel sonno>> Chiese di nuovo scusa alla lucciola, la spense e si addormentarono. La mattina seguente Marzolina e Astolfo tornarono sul ruscello e trovarono l’Ing. Dentone che rimirava la sua opera mentre Ratto Distratto stava montando gli ultimi pezzi di quella meravigliosa macchina. <<Non è una meraviglia? –disse rivolgendosi a Marzolina – è una macchina del tempo, vedrai, basterà salire su di lei, mangiare una di quelle bacche che Gnomo Astolfo ha raccolto, chiudere gli occhi e ti ritroverai dove hai sempre desiderato essere…>> Così dicendo aprì lo sportello e invitò la bambina a entrare nella macchina, mentre Gnomo Astolfo sorridendo porgeva a Marzolina una bacca rossa e Ratto Distratto combinava un altro dei suoi proverbiali pasticci dimenticandosi di montare addirittura il motore…ma Marzolina non se ne accorse, era tutta eccitata e i suoi occhi verdi brillavano mentre mangiava la bacca…si addormentò subito e dopo poco si risvegliò. Si guardò intorno meravigliata: era nella sua cameretta e lo gnomo di peluche che era sul suo comodino la guardava sorridendo birichino.

© Franco Pucci 2009                                                                  illustrazioni: Anna De Vivo

domenica 19 febbraio 2012

A testa in giù, tra le nuvole

[a testa ingiù]
Il paese senza tetti si specchiava a testa ingiù nella luna
un mazzo di rose avide d’amore inseguiva una farfalla indifferente
e il merlo sul divano fischiettava allegro irridendo il gatto in gabbia.

Il luccicore del tuo sorriso asciugava le lacrime stese al sole,
mentre la piccola gonna rossa di vergogna copriva miriadi di efelidi,
un ricamo di pizzo nero arabescava il candore della tua pelle.

Il sentiero che attraversava il laghetto aveva riflessi sottobosco
lampi d’argento sul verde tenero erano la danza di pinne e squame
e tu accarezzavi la chioma di una piccola stella che nuotava felice.

[tra le nuvole]
Un gabbiano vestito da gallo strazia il nuovo giorno al morire del sole
a testa ingiù raccolgo i fogli sparsi sul pavimento, torno a vedere il cielo
ha confuso il mio racconto questa laida notte mascherata da giorno.

Il rumore del sorriso


La nuvola bianca di gabbiani chiassosi e festanti
insegue il bragozzo al morire del dì di pesca,
m’interroga lo sguardo assetato di rosso tramonto
catturandomi le labbra, aprendole al sorriso.

Mille ali con ardite evoluzioni planano sulla spuma
nella argentea scia, ospiti voraci del banchetto
che il consueto operare del pescatore offre
ogni giorno alla pervicacia del lacerante richiamo.


Il passare del traghetto scompiglia la tavolata,
torna la nuvola bianca e macchia l’azzurro morente
mentre gli occhi ebbri del sole che si tuffa nel mare
catturano lo stupore del muto volteggiar di ali.

[nel silenzio, il rumore del sorriso] 

L'invidia


Tra Corvi, Vipere, Streghe e Magonze, una favola per i bambini che hanno fretta di crescere.

Protagonisti in ordine sparso:

Brunilde: Magonza un po’ maga un po’ strega
Cra: corvo  invidioso porta sfortuna
Cri: vipera inviperita e golosa

Brunilde aprì di colpo gli occhi e riprese a narrare con voce impastata: << …dunque, cari bambini dicevamo…il corv…>> gli occhi decisamente strabici della Magonza stavano mettendo piano piano a fuoco la scena e fu a quel punto che Brunilde si bloccò e le parole le rimasero conficcate nella strozza.

Brunilde era una strega oddio, non proprio una strega, una Magonza, una strega un po’….diciamo particolare che aveva una strana malattia: si addormentava di colpo, in qualsiasi situazione e qualsiasi cosa stesse facendo, improvvisamente le si chiudevano gli occhi e si addormentava! Il bello era che dormiva per anni e quando si risvegliava era convinta di avere fatto un pisolino di pochi minuti. Untuosamente grassa (…ehmm diciamo così per non offenderla troppo non si sa mai, era decisamente obesa, 237 chili!) con un naso che pareva il clarinetto di terza fila degli ottoni della “Orchestra dei Maghi Nasuti”, grosse verruche e nei sparsi a piene mani sul suo viso, sorrideva con un ghigno da sdentata che non aveva i soldi per pagarsi il dentista e non aveva neanche la mutua. Dicevamo quindi che la Magonza si era risvegliata di colpo da uno di quei “pisolini” che puntualmente interrompevano le sue attività e si era resa conto che i bambini che la circondavano e la stavano ascoltando, in realtà erano diventati adulti ed alcuni decisamente vecchi, addirittura con la barba bianca. Già, perché Brunilde, prima di addormentarsi stava raccontando loro una bella favola, cattivella cattivella, come vuole che sia le favole raccontate dalle streghe. Decise su due piedi di continuare la favola, bastava fare una magia e sarebbero tornati bambini, sperando di non addormentarsi di nuovo…Così prese la sua bacchetta magica, in realtà una stecca del suo busto che le strizzava la vita per farla sembrare più magra, e pronunciò la formula di rito Maga Magonza ordina una danza, che la vecchiaia scompaia dalla stanza!” Detto fatto fu circondata di nuovo da una schiera di bimbi e continuò il racconto: C’era una volta, tanto tempo fa, oddio diciamo un paio d’anni? Beh fate voi, nel mio mondo il tempo non esiste, un castello chiamato Torre d’Avorio per via del colore delle pietre con cui era stato costruito e perché in questo castello tutti i presuntuosi si rifugiavano volentieri. Ma il castello ospitava volentieri anche artisti di ogni genere: musicisti, pittori, scrittori ed era solito dare rappresentazioni e spettacoli che riscuotevano un grande successo ed erano famosi in tutto il circondario. Cra & Cri, coppia di guitti d’avanspettacolo in cerca di autore, desiderava disperatamente potersi esibire sul palcoscenico della Torre d’Avorio e tanto fecero e tanto brigarono che un giorno finalmente furono invitati per dare una recita e la prova della loro abilità. Cra era un corvo nero come la pece e un po’ gobbo tanto che gli altri animali frequentatori castello facevano costantemente gli scongiuri quando lo incontravano. Un becco giallo intenso, una voce sgraziatissima, calcava il palcoscenico zoppicando per via di un occhio di pernice che aveva sotto una zampa che non lo faceva dormire dal male. Eredità di sua nonna una pernice grigio cinerino sfortunatissima sin dalla nascita e orba di un occhio. Cri invece era una vipera, talmente vipera che quando si inviperiva avvelenava con la sua sola presenza tutti gli astanti. Aveva anche un difetto di pronuncia, sibilava sempre, anche quando non c’entrava niente addirittura quando si presentava: <<Piacere, sono Criss..ssssss…ss>> questo difetto la innervosiva talmente che la portava spesso a sproloquiare ed ad insultare gratuitamente gli animali del castello ma tant’è, era una vipera! Furono dunque assunti e per un periodo di tempo gli altri abitanti li sopportarono, accettando di malavoglia le esibizioni che loro presuntuosamente chiamavano “spettacoli”. Erano decisamente incapaci, due veri guitti, con un aggravante in più, la presunzione. Dopo l’ennesimo insuccesso la Compagnia Teatrale della Torre d’Avorio decise di fare a meno della loro “collaborazione” e i due furono abbandonati al loro destino. Cra e Cri si ritrovarono così senza un posto dove esibirsi e, nel colmo di un attacco della loro consueta presunzione pensarono bene di costruirsi un castello tutto per loro, dove poter tenere i loro penosi spettacoli. Sarebbero stati i responsabili della compagnia teatrale, avrebbero quindi avocato a loro meriti ed onori senza dover invidiare nessuno. Fu così che acquistarono un terreno non molto distante e cominciarono la costruzione. Ma erano incapaci e spesso tornavano alla Torre che avevano lasciato e dal buco della serratura del portone di legno massiccio spiavano per poter copiare e continuare così nell’edificazione della loro catapecchia che pomposamente chiamavano anche loro “Stupendo Maniero” anzi "Ssssss..tupendo”, dato che la vipera sibilava.  Ma fu un fiasco! Dal buco della serratura della Torre potevano assistere anche agli spettacoli che regolarmente venivano tenuti all’interno, su di un palcoscenico sempre più frequentato da grandi artisti che davano rappresentazioni di grande eco e successo.  L’invidia aumentava…Una sera, dopo l’ennesima sortita alla porta della Torre e dopo aver constatato che il numero degli spettatori era in continuo aumento, furono presi da un attacco di invidia così forte che incominciarono a lamentarsi rumorosamente. Cri sibilava continuamente tanto il suo sibilo servì da richiamo ed accorsero frotte di cornacchie gracchianti che si unirono al concerto dei lamenti. Cra invece col suo gracchiare a becco aperto ingoiò una libellula e per poco non morì soffocato. Tutto questo rumore attirò l’attenzione di una strega, Brunilde, per l’appunto la quale apparve e li apostrofò: << Che avete da frignare voi due? State facendo un rumore infernale, mi avete svegliata dal mio consueto pisolino. >> <<Non sopportiamo più il successo degli abitanti di questo castello, stiamo così male che a furia di piangere ci è venuta persino fame!>> Mossa a compassione Brunilde disse loro: <<Ecco, prendete questa è la chiave del cancello del mio orto privato. Là io coltivo le erbe che adopero per le mie pozioni magiche. In un angolo c’è un fazzolettino di terra coltivato ad Indivia, un’insalatina buonissima: Prendetene quanta volete e sfamatevi!>> Così dicendo Brunilde in una zaffata di zolfo ed aromi puzzolenti sparì. Cra e Cri mossi dalla fame si recarono immediatamente nel luogo dove la Magonza aveva il suo orticello, aprirono il cancelletto e si trovarono di fronte ad una serie di coltivazioni tutte ben curate ed allineate ciascuna con un cartellino che identificava la qualità ed il nome dell’erba coltivata. Ma il due erano così affamati che si gettarono a capofitto sul primo fazzolettino di terra che aveva un cartello con un’indicazione che a loro pareva essere quella data da Brunilde. Ne mangiarono a più non posso. Poco dopo Cri, sibilando come un copertone bucato  si gonfiò tutta e ..<<ssssssss!>> scoppiò e si trasformo in un verme. Una Tenia, un verme solitario avidissimo e sempre affamato. Cra, ingordo, con ancora il becco pieno di insalata vide il verme e lo ingoiò in un sol boccone. La Tenia nel corpo del corvo aveva mantenuto tutto il veleno di Cri e questi fece il suo dovere cominciando a divorare lo stomaco del corvo.Cra, spasimando a zampe all’aria e mostrando l’occhio di sua nonna Pernice, girò lo sguardo e vide il cartellino che individuava la pianta a pochi centimetri da lui e lesse: INVIDIA.  E mentre dalla pancia sibilando usciva un ultimo <<sssssssssss!>> riversò il capo e morì.

Brunilde concluse così la sua storia: Invidia e ignoranza vanno a braccetto!




giovedì 16 febbraio 2012

Mandorle amare














È come se lo avessi sempre saputo
-quel sapore rancido di mandorle amare
retro gusto d’afrore di violenza bestiale-
ritorna puntuale a bruciarmi la gola
nei racconti di vita raccolti per le strade
laddove il mandorlo vorrebbe essere fiore.

È come se d’improvviso la notte celasse
con pesanti coltri di Damasco gli orrori
e tu, Perla d’Oriente ormai senza lucore
stuprata, inaridita, dal ventre come pietra
negherai il fiore di una nuova primavera.

È amara impotenza che avvelena la vita.

...e sono ancora qui



…e poi nella notte della ragione
ho accarezzato sogni bastardi
cavaliere in arme ho combattuto
mulini a vento con parole inermi

[cento secondi di furiose erinni
hanno travolto anni di senno]

negli angoli sperduti dell’anima
ho raccattato i loro miseri resti
crisalidi abortite, riarse nell'ira
hanno perduto l'antica sicumera

quanto sapeva di gesso quell’odio
bevuto alla fonte della vendetta
Don Chisciotte dai versi pugnaci
ora disarcionato dal verbo letale

…e sono ancora qui Pierrot sospeso
in una bolla precaria d’onirico fiato

mercoledì 15 febbraio 2012

Ciondola le gambe, la luna puttana


Ciondola la luna le gambe diafane
sul colmo di una vasca di pece greca.

Quaranta le gasse d’amante sulla fune
calata di soppiatto per tornare a casa
fuggo straziando di pelle il canapo
lascerò sul cuscino tracce d’amore.

i sogni sanno essere cattivi
nelle notti orbe di stelle

Dondola ironico il lume sul banco
è pane azzimo il conforto dell’anima.

Perso a rincorrere improbabili gemme,
affamato d’amore nel vuoto pneumatico
di un’apnea notturna, annaspo al colmo
nella vasca lorda di nero mentre ti cerco.

Ciondola le gambe, la luna puttana.

Spesso la notte

Buccia

Cuore aquilone

È così semplice, dimmelo ancora

e tu dimmi perché
ancora la tua mano racconta brividi mai sopiti
e l’inverno del cuore indossa una coltre di neve calda
mentre gli occhi indugiano negli occhi il calmo fluire del desiderio

e spiegami ancora
com’è che nonostante la zoppia i fiati pareggino i passi
e sorrisi complici velati di circostanze irridano le curiosità maligne
di chi si perde nella ricerca affannosa di date e di numeri

e allora sì
sì è come allora, come sempre, forse come non è mai stato
stupiti noi di tanto ipocrita stupore quando le labbra si cercano
mentre gli sguardi scivolano sulla neve che imbianca i nostri anni

e’ così semplice
ma non lo spiegheremo, gelosi del nostro mordere il tempo
quando tutto sembrava iniquo ed avverso conquistando il domani
abbiamo cantato la stessa canzone con una voce sola ricordi le parole?

dimmelo ancora


martedì 14 febbraio 2012

Una buona ragione


Forse c’è una buona ragione per continuare a scrivere.
Quando le parole rincorrono le mani e si sentono sole
e la notte ha il sapore del caffè irrancidito nella tazzina,
stravolgi i tuoi pensieri e leghi il cuore a un solo battito.
Sarà quel ritmo ossessivo, monocorde che comanderà,
detterà il percorso dei tuoi pensieri fagocitando il senso.

[le dita come alunni in un’aula vuota spezzano gessetti
straziando brandelli di anima su una lavagna bugiarda]


Sì, forse c’è una buona ragione perché tutto ciò accada
anche stanotte inseguo immagini, laceri pezzi di anima
che bussano e premono alla porta, coartando le mani…
il bisogno di urlare, di liberare la mente è insopprimibile.
La voglia indecente del raccontarsi nonostante gli errori
altera la sequenza degli impulsi vitali e denudo parole.

[anime sensibili in farisaica processione ora giudicano
spettacolo inverecondo quel lacerar veli del tuo mondo]

E’ amore, è una buona ragione.

domenica 12 febbraio 2012

Oggi ha nevicato…(ancora mi mancate)

Oggi ha nevicato. Poco.
Il molo ha un aspetto cadaverico,
algida rappresentazione di una pièce
d’inverno inoltrato, atteso e incattivito.
La laguna, come lastra di vetro incrinato,
spezzetta i riflessi e i rari gabbiani in volo
paiono frammenti di farfalle dislessiche
in cerca di materno riparo, di un rifugio.
Nel grigio che incombe e tutto soffoca
con la sua indole indifferente e apatica,
ogni rumore pare ovattato, lontano.

Oggi ha nevicato. Poco.
Le strade deserte rimandano echi
e suoni secchi, come di vecchie canne
spezzate da raffiche di bora inclemente.
Anche i pensieri paiono grigi mentre
prendono forma pigramente dentro di me.
Poi esplodono. A fatica trattengo un gemito.
E’ strano come, quando si pensa a chi
ha terminato il suo viaggio, lo si immagini
sempre solo lì, in una stazione, in attesa
dell’arrivo di tutti o di nessuno, chissà.

Oggi ha nevicato. Tanto.
In quella stazione disadorna, al termine
di quell’unico binario imbiancato vi ho visti,
fianco a fianco, insieme come una volta,
senza bagagli, liberi dalle inutili some della vita.
Stretti stretti, col calore dei sorrisi negli occhi
scaldavate serenamente l’attesa di un treno,
in quella stazione senza tempo né orario.
Quel treno non è ancora partito e il freddo
che gela le ossa non è bora che frusta la laguna,  
bensì desiderio mai sopito del vostro calore .

Oggi ha nevicato. Troppo.

Lo zoccolo di legno col cinturino di cuoio rosso

I balconi con le ringhiere di ferro ormai corroso
si affacciavano sul cortile come protesi dentarie
neglette dai dentisti, ma convenzionate all’Inam.
L’immancabile gatto, signore delle cantine, orbo
da un occhio, e dal mantello virgineo che tradiva
scelleratezza, dominava le afose notti d’Agosto.

[la notte suonò un solo tocco quando il lamento
mutò in richiamo di felinei ormoni entusiastici,
fu strazio lacerante e il sonno fuggì atterrito]

La fuga e l’inseguimento risuonarono nella corte,
fra moccoli e miagolii lo zoccolo si levò nell’aere
planando fragoroso su damigiane di rubizzo vino.
Non venne mai recuperato tra le vitree schegge,
il battere ritmico del piede orbo di legno gemello
fu compagno ai tocchi che ricondussero al sonno.

Da allora il vino rosso mi dà acidità di stomaco…

L'eskimo verde militare


In fondo era solo un agognato panino con i wurstel e i crauti,
alla “Crota Piemonteisa” vicino a San Babila a Milano, perché temere?
L’aria non era delle migliori, è vero, con tutti quei lacrimogeni
ma avevo finito di insegnare grafica a pochi assonnati volenterosi.
-Prof.- mi interpellavano sfottenti - andiamo insieme a farci un panino?
Così, indossato il mio eskimo verde, rigorosamente made in Usa
sopra i Roy Rogers d’ordinanza, venticinquenne ragazzo padre
sfidavo gli umori e le contestazioni in quella sera del ’69.
-Sei di sinistra?- il lampo improvviso negli occhi dei tre che attendevano.
Mentre l’urlo delle sirene mistificava le imprecazioni e le bestemmie
fioccarono i pugni, non era poi così bella Piazza San Babila vista da terra.
Cristo!  In fondo era solo un panino, anche se di sinistra.
Col tempo ho poi capito, il verde militare stonava con il blu indigo dei jeans.

Una canzone per noi

In questa notte mentre una falce di luna fa messe di giovani stelle
giunge il respiro dei pescherecci come canto d’amore per il mare.
I gabbiani ammutoliti ascoltano sbuffi e cigolii farsi crome e diesis
che il sibilare del vento intona tra i casseri ormai disfatti dal sale.

Chissà perché l’eco di ogni rumore, di ogni alito che la calle rimanda
stanotte non è noia ma dolce e malinconica musica che mi prende.
Vorrei trasformare questa pagina di notturni e spericolati pensieri
in un magico pentagramma ove mutare con perizia le parole in note.

Una canzone, sì, una canzone finalmente! Un lieve frullo d’ali sapienti
che ci catturino nel profondo e trasportino in una danza interminabile,
dimentichi del mondo, stupiti della profonda intesa che gli anni donano
leggeri come foglie ruggine che planano all’imbrunire della stagione.

A chi stupito chiederà come la neve non abbia ancora soffocato il sole,
un sorriso racconterà per noi la storia che non conosce la parola fine.
Capitoli sparsi in libertà nelle pieghe della memoria, raccolti in un libro,
canteranno della nostra vita e stanotte scriverò poesia come canzone.

[quando l’amore ha colori
come ali di farfalla, non chiederti
quanto esso durerà, basterà
il battito di un ciglio e gli occhi
stupiranno tra la porporina
che piano si poserà sulla neve]

La sottile linea rossa tra il cielo e il mare


ero morto ieri
quando il maestrale lo urlò
una nube di ali indecise
improvvisa decise la rotta
e mille aquiloni le fecero corona

laggiù, laggiù
dove il mare si scioglie nel cielo
una sottile linea rossa
attese di infuocare il tempo
e una terra aspra aprì il suo ventre

il legno prezzolato
trasportò il corpo alieno
sconosciuto ai battiti del mio cuore
nel ventre raggomitolò
e si acconciò all’attesa del sapere

sono nato oggi
quando la risacca ha vomitato
sul livido litorale grigia cenere
la linea rossa avea cremato infine
l’arroganza dell’alieno mistificatore

la brezza ora canta
gli aquiloni hanno sconfitto il tempo
miriadi di voli anarchici ricamano il cielo
e accompagnando note in libertà
rimandano navigati vagiti come do di petto

sabato 11 febbraio 2012

Lo stagno nella vasca da bagno



Personaggi ed interpreti

La Famiglia reale:

ReRospo: Re Brutto ma Buono
NanaRana: Regina Bassottina
GiroGiro: Girino Principino
BissSerpe: Bestia Reale

Gli animali dello stagno:

Topolino Idiotino: Scemo dello Stagno
Mago Veloce: Ragno Zoppo
Fata Svampina: Ape sbadata
Corvo Nerino: Porta sfortuna
Meo Scarabeo: Meccanico personale di Mago Veloce

Bimbo Sporcaccione
La mamma

Trama:

GiroGiro il Principino vuole salvare gli abitanti dello stagno dalla maledizione del Ragno Veloce che ha trasformato tutta la comunità in tanti sordomuti, c’è chi sente e non parla e c’è chi parla e non sente. Si farà aiutare da Fata Svampina…

….nel paese di chissàdove, nel giorno di chissàquando in uno stagno grande come una vasca da bagno, nacque un girino. Era un girino speciale, primo perché era figlio del ReRospo e NanaRana la regina e poi perché non stava mai fermo, girava in tondo in tondo. Per questo i genitori decisero di chiamarlo GiroGiro il Girino Principino.Era un bel girino che cresceva alla svelta, anche se spesso perdeva la memoria perché girava tondo  tondo e si dimenticava di tutto, anche di quello che stava facendo e dicendo.Pur di guarirlo da questa strana malattia i genitori avevano interpellato i migliori specialisti dello Stagno finché disperati, su consiglio dei dignitari di corte, non si rivolsero al Mago Veloce. Questi era un mago temuto e conosciuto in tutto lo Stagno: un ragno velenoso che aveva perso le zampe durante una gara di ballo…si erano intrecciate così strettamente che dovettero amputargliele.  Da allora girava in carrozzella, lo chiamavano Mago Veloce, ed era diventato più cattivo che mai. Interpellato Mago Veloce disse a ReRospo: “comprate un animale al Principino, non si sentirà solo e avrà un compagno che lo aiuterà molto: dovrà portarlo a spasso legato ad un guinzaglio e dovrà stare attento a non girare tondo tondo, altrimenti lo strozzerà!” Mago Veloce poi disse sogghignando: “Vi consiglio un serpente, è sicuramente adatto al Principino…” Fu così che nella reggia dello Stagno prese alloggio un serpente giallo e verde, un po’ bruttino in verità che fu chiamato BissSerpe. Fu dotato di collare dorato e tempestato di diamanti: era pur sempre la Bestia Reale ed al Principino fu regalato un guinzaglio di splendida pelle verde di ramarro trovata attaccata ai rovi, lasciata lì durante la muta. GiroGiro andava a passeggio con BissSerpe al guinzaglio, ogni tanto lo strozzava un po’, ma si riprendeva subito e ritornava in sé, ricordando esattamente dove era e cosa stesse facendo. Tutto lo Stagno conosceva la sua storia e tutti guardavano al Principino con un misto di curiosità e di compassione. Dovete sapere che lo Stagno si era formato nella vasca da bagno di un bimbo particolarmente sporcaccione, che non voleva lavarsi mai e l’acqua che rimaneva nella vasca era così sporca e piena di terra che la stessa si era trasformata in uno stagno pieno di erbe, fiori di loto e animaletti vari: rane, bisce, piccoli pesci, topolini e via dicendo, tutti gli animali possibili che uno stagno può ospitare. Tutti gli abitanti erano al corrente del consiglio dato al Re dal Mago Veloce e sapevano anche che il Principino non doveva fidarsi troppo del serpente, perché era una creatura che ubbidiva al Mago. Vollero allora avvisare il re ed una delegazione di animali si recò alla reggia per conferire con ReRospo, ma fecero l’errore di portare con loro anche lo Scemo dello Stagno, ovvero un topolino, il Topolino Idiotino che non parlò durante l’incontro ma da bravo idiota spifferò tutto a Mago Veloce. Mago Veloce si arrabbiò moltissimo e lanciò una maledizione contro lo Stagno: “Da questo momento metà di voi sentirà ma non parlerà e l’altra metà parlerà ma non sentirà, così il Re non saprà mai se chi aveva parlato aveva anche sentito e rimarrà col dubbio della verità.” Tutto lo Stagno ammutolì di colpo, poi metà cominciò a parlare ma l’altra metà non sentiva e viceversa, si creò così un caos indescrivibile e tutta la comunità cadde in una confusione totale che paralizzò la vita degli abitanti. ReRospo seppe dell’accaduto e, memore di quanto i suoi sudditi gli avevano raccontato, mandò suo figlio, il Principino GiroGiro, ad accertarsi di quanto era successo. “Vai allo stagno e cerca di capire cosa sia successo ma soprattutto cerca di ricordarlo, perché stavolta andrai da solo, BissSerpe non verrà con te, è una spia del Mago Veloce.”GiroGiro uscì dal castello e si incamminò verso lo stagno, ogni tanto girava tondo tondo per un po’, si fermava, non ricordava più niente e ricominciava a vagare senza meta.“Devo farmi aiutare da qualcuno - pensò- perché altrimenti non riuscirò a fare quello che mio padre mi ha chiesto “. In questo barlume di lucidità gli venne in mente chi avrebbe potuto aiutarlo: la Fata Svampina. Fata Svampina era una fata che viveva tra i pistilli di un magnifico fiore di stagno sì, proprio tra i pistilli, perché Svampina era un’ape, una bellissima ape colorata a strisce bruno e oro che proteggeva lo Stagno, ma che era così sbadata che combinava sempre un sacco di guai ed era disattenta così che nello Stagno l’avevano soprannominata Fata Svampina, la Fata sbadatina… GiroGiro si recò da lei e chiese aiuto poiché da solo non sarebbe mai riuscito a portare a termine l’incarico che ReRospo suo padre gli aveva affidato, voleva dimostrargli di essere all’altezza, un degno successore alla guida dello Stagno. “Oh Fata Svampina, mi devi aiutare, Mago Veloce ha fatto una maledizione e tutti gli abitanti dello stagno adesso sono in confusione: metà parla e non sente e metà sente ma non parla…che caos…” disse con tono accorato il Principino. “Ti aiuterò -disse la Fata, - appena riesco a liberarmi dai pistilli che mi si sono appiccicati alle ali…sai ieri sera sono andata a dormire tra i pistilli come al solito, ma non mi sono accorta che avevo ancora le ali sporche di miele, non mi ero pulita tra le foglie, come al solito….” Fata Svampina riuscì finalmente a districarsi dai pistilli e si incammino ronzando e volando accanto a GiroGiro verso lo Stagno. Tutto questo gran daffare non era sfuggito a Corvo Nerino, un corvo nero come la pece che svolazzava sopra lo stagno ed era amico di Mago Veloce. Così volò velocemente ad avvisare il mago, ma non lo trovò: Mago Veloce era andato da MeoScarabeo il meccanico dello stagno, per il consueto controllo della sua carrozzella. “La solita sfortuna” – pensò – Corvo Nerino e si appollaiò su un ramo di spino ad aspettare il ritorno del Mago. Corvo Nerino era conosciuto in tutto lo stagno come un corvo particolarmente sfortunato, tanto che era chiamato Portasfortuna e tutti gli animali lo evitavano e facevano gli scongiuri quando lo vedevano o lo incontravano. Nel frattempo GiroGiro e Fata Svampina erano giunti allo stagno e la Fata aveva cominciato il suo rito magico per togliere la maledizione agli abitanti: volava ronzando avanti ed indietro spargendo tutto intorno al polline magico che aveva accumulato volando di fiore in fiore, ma….…come sappiamo era un’ape particolarmente sbadata e durante la magia con la sua disattenzione combinò un sacco di pasticci e di guai; riempì di polline la casa di Mamma Chiocciola che ne era uscita per lavarsi i carnini, volando ma guardando indietro andò a sbattere contro il campanile della chiesa e perse metà del suo prezioso carico, insomma non faceva che combinare guai con la sua sbadataggine. Nel frattempo Mago Veloce, che aveva terminato la messa a punto della sua carrozzella, era stato avvertito da Corvo Nerino e rombando come una Formula Uno arrivò sulla riva dello stagno. Era arrabbiatissimo e stava per lanciare un’ altra delle sue terribili maledizioni quando….l’acqua dello stagno si increspò, si creò un gorgo al centro e tutto lo stagno con i suoi abitanti finì inghiottito in un buco nero…cosa era successo? La mamma del Bimbo Sporcaccione aveva semplicemente tolto il tappo alla vasca da bagno e tutto era finito nello scarico. Ma la storia non finisce qui proprio in quel mentre il bimbo tornò a casa, più sporco che mai…”Hai proprio bisogno di un bel bagno” disse la mamma….

© Franco Pucci 2009                                                               design: Anna De Vivo