Era tempo che io
e te
-mio immaginario
seppur reale e straziante interlocutore-
ci incontrassimo
di nuovo su questa panchina usurata
mentre la darsena
chiude gli occhi al riflesso del tramonto.
Il marmo è
gelido, è vero
e mentre io mi acconcio
rabbrividendo i pensieri rattrappiti
tu preferisci
volteggiare lassù -parentesi interrogatoria-
nell'azzurro ingrigito
di questo autunno, e ascolti partecipe.
È venuto il tempo
che
-dismessi abiti
di nomade inadeguato di versi e quartine-
metta un punto su
questa pagina sfuggita al carcere elettronico
e che definisca
quel che mi attende al prossimo angolo della vita.
[Ho bruciato teorie di topi impestati tra le
pagine di Camus,
ho stipato sul ballatoio monatti evasi dalla
prosa manzoniana
Prevert ora ha una cartolina di Chioggia
attaccata alle costole
e ho un armadio di abiti da poeta fingitore
come dice Pessoa.]
Più non ti vedo,
amico mio
forse la
parentesi lassù s’è aperta e la difficile equazione s’è sciolta.
È stato un volo
lungo un lustro e all'approdo ho sognato quando,
smesse le ali sul
marmo, con la paura della solitudine t’ho inventato.
Era tempo che tu sapessi
su questa
panchina nel tempo è cresciuto un gabbiano di cartapesta
dal becco
fragile, sporco di parole appiccicate alle ali maldestre
implume, ironico cria
di un’italica nidiata di santi, poeti e navigatori.
Punto. A capo.
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