[Non so perché per
i vecchi ricordare
sia il copione più
facile da interpretare
quando si è
sollecitati sul proscenio,
sull’assito, a
recitare scampoli di vita.
O forse è desiderio
di mettere a nudo
se stessi, come se
le tessere del mosaico
che compongono
un’esistenza fossero
scaglie di vergogna
di cui liberarsi.
Così apriamo i cassetti
del canterano
mettendo in fila
parole, frasi, spezzoni
di avvenimenti che
raccontano di noi,
della nostra vita,
e quel faticoso respiro
che passa
attraverso i mantici del corpo
non si ferma allo
sterno, ma prende voce
e corpo e sale su, sino
a liberare l’anima
dalla sua atavica ritrosia
e timidezza.]
Calzoni corti e gambe perennemente ferite
dalle ire dei rovi in cui spesso m’infrattavo,
uccidevo i noiosi pomeriggi periferici
con la caccia alle lucertole e le interminabili
partite a ping-pong nell’oratorio.
Sedici anni sfrontati con la sfida negli occhi
e l’ansia di crescere legata nei pantaloni.
Si chiamava Sandro. Don Sandro.
Era il giovane prete cui era stata affidata
la gestione dell’oratorio di periferia.
Il richiamo a un dovere che sentivo imposto,
parve essere limitazione alla mia libertà
e causò il mio scatto d’ira, un gesto
di cui immediatamente mi pentii, ma…volò
la racchetta e colpì il rosario appeso alla tonaca.
Cadde a terra il piccolo crocefisso.
Andò in frantumi.
Non ho più rivisto quella tonaca nera,
e ho spesso cercato d’incollare quei frammenti.
Ma ho sepolto i ricordi nel canterano della vita,
tra fogli ingialliti e fermagli arrugginiti dal tempo.
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