Sei del mattino.
Il letto mi ricorda
quel roveto grigiastro
osceno spacciatore
di more emofiliache
che ricopriva
buona parte delle sponde
del Seveso malato
vicino casa, a Milano.
-spine dolorose,
oh! mani avide e incaute-
Esco.
La merla mi
presenta una Chioggia livida,
ha il sorriso decrepito
e l’occhio acquoso
di un Achab
canuto, sconfitto, mai domo.
Mi stringo nel
piumino, brividi mattutini.
-pensieri appesi
al cielo, gelide stalattiti-
Il cielo irride.
Nelle orecchie
l’eco del tuono magnetico
e nelle natiche
il rantolare della corriera.
Ora la merla
zittisce, i pensieri sciolgono
e i versi paiono testarde
primule precoci.
-sole sfacciato,
utopia di primavera attesa-
Volubile azzurro.
La merla sorride
e affila il becco -s’intona-
veloce arroto i
tasti prima che geli il cuore.
Scrivo, mentre il
bianco della sala d’attesa
fa il paio coi
camici solerti delle infermiere.
-sorrido, ho l’azzurro
in tasca-
La merla stona il
fischio, muore nel bianco.
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